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Contaminazioni abiotiche

Tipologie di contaminanti:
- classificazione secondo la natura: agenti fisici e agenti chimici.
- classificazione secondo gli effetti: pregiudicanti l'idoneità alimentare e pregiudicanti la sicurezza alimentare
- classificazione secondo la genesi della contaminazione: intenzionali e non intenzionali. Nel primo caso (intenzionali) la contaminazione deriva dall'impiego della sostanza per fini produttivi; in questi casi la contaminazione può avvenire sia nel contesto di sostanze il cui impiego è ammesso dalla legislazione (additivi, farmaci), sia per sostanze il cui impiego è vietato (ormoni anabolizzanti). Alla seconda categoria appartengono tutte quelle contaminazioni accidentali, non volute, che non derivano da impieghi giustificabili dalle esigenze tecnologiche di produzione o conservazione del prodotto alimentare.
- classificazione secondo l'origine del contaminante: Naturale/Ambientale; Industriale/Urbana; Biologica; Endogena.

CONTAMINANTI FISICI
Negli USA il riscontro di un agenti fisici negli alimenti e nelle bevande si aggira intorno a 1:20.000 abitanti/anno; la frequenza con cui si verificano eventi patologici conseguenti ad agenti fisici presenti in alimenti e bevande è di 1:500.000 abitanti per anno.
Fra i contaminanti fisici troviamo: materiali e corpi estranei, il calore, i radionuclidi.

Materiali e corpi estranei: sono oggetti in grado:
a) pregiudicare l'idoneità alimentare;
b) di danneggiare i denti o le protesi dentali;
c) di ledere i tessuti con tagli e abrasioni a livello di bocca, faringe, esofago;
d) di provocare occlusioni con conseguenti stati di soffocamento (ostruzione della faringe), o perdite funzionali del tubo gastrointestinale.
Materiali e corpi estranei in grado di pregiudicare l'idoneità alimentare sono frammenti di insetti, parti di ratti o di altri animali, e qualsiasi elemento estraneo non in grado di provocare danno, privo di effetti chimici o biologici (es. sabbia, segatura, ecc.).
Materiali e corpi estranei in grado di pregiudicare la sicurezza alimentare più frequentemente riscontrati sono: metallo, legno, ossa, gomma, plastica, vetro, sassi, cristalli, guscio d'uovo, carta e altro.
Calore: alimenti serviti a temperature tali da provocare lesioni o scottature (>50° C). Es. pizza, creme, cioccolato, caffè, strudel, dolci ripieni riscaldati al forno a microonde.
Radionuclidi: elementi radioattivi, i quali espongono a radiazioni ionizzanti. La loro capacità radiante può essere naturalmente acquisita (ad es. radio) o conseguente a trattamenti (ad es. cobalto). La contaminazione deriva sia da esposizione a fonti naturali, sia da sostanze impiegate o residuate da reattori nucleari (centrali di ricerca, centrali per la produzione di energia o per la propulsione di navi e sommergibili), da sostanze diffuse da ordigni nucleari (bombe atomiche, ecc.). Responsabile del danno all'individuo è la radiazione ionizzante. Per radiazione ionizzante si intende qualsiasi radiazione che direttamente o indirettamente modifica la carica elettrica degli atomi o delle molecole e di conseguenza le proprietà chimiche di queste: ciò ha un effetto significativo sui processi biologici, per cui la radiazione ionizzante può provocare danno agli organismi viventi. Esistono essenzialmente due tipi di effetti: quello somatico e quello genetico. Gli effetti somatici riguardano le cellule che presiedono alle funzioni dell'organismo, quelli genetici riguardano invece i danni che si possono riscontrare nelle generazioni future.

CONTAMINANTI CHIMICI. I contaminanti di natura chimica possono interferire in vario modo sull'igiene dell'alimento. Sul piano della loro pericolosità, essi possono:
a) provocare lesioni o squilibri di rilevanza tossicologica;
b) provocare reazioni avverse, quali allergia o intolleranza all'alimento (1% della popolazione)

Contaminanti intenzionali
Fitofarmaci; Farmaci; Additivi; Coadiuvanti tecnologici; Anabolizzanti

Vincoli igienici e tecnologici dell'impiego degli additivi e dei coadiuvanti tecnologici
Per additivo alimentare si intende qualsiasi sostanza, normalmente non consumata come alimento in quanto tale e non utilizzata come ingrediente tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo, aggiunta intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico nelle fasi di produzione, di trasformazione, di preparazione, di trattamento, di imballaggio, di trasporto o immagazzinamento degli alimenti, che si possa ragionevolmente presumere diventi, essa stessa o i suoi derivati, un componente di tali alimenti direttamente o indirettamente. 
Per coadiuvante tecnologico si intende una sostanza che non viene consumata come ingrediente alimentare in sé, che è volontariamente utilizzata nella trasformazione di materie prime, prodotti alimentari o loro ingredienti, per rispettare un determinato obiettivo tecnologico in fase di lavorazione o trasformazione che può dar luogo alla presenza, non intenzionale ma tecnicamente inevitabile, di residui di tale sostanza o di suoi derivati nel prodotto finito, a condizione che questi residui non costituiscano un rischio per la salute e non abbiano effetti tecnologici sul prodotto finito.
La dizione "quanto basta", indicata quando non è necessaria una dose massima, significa che l'additivo deve essere comunque utilizzato secondo le norme di buona fabbricazione, ad una dose non superiore a quella necessaria per raggiungere lo scopo prefissato e a condizione che non tragga in inganno il consumatore. (Decreto Ministeriale n° 209 del 27/02/1996)

Gli additivi alimentari sono classificati in categorie:
Coloranti, Conservanti, Antiossidanti, Emulsionanti, Sali di fusione, Addensanti, Gelificanti, Stabilizzanti, Esaltatori di sapidità, Acidificanti, Correttori di acidità, Antiagglomeranti, Amidi modificati, Edulcoranti, Agenti lievitanti, Antischiumogeni, Agenti di rivestimento, Agenti di trattamento della farina, Agenti di resistenza, Umidificanti, Sequestranti, Enzimi, Agenti di carica, Gas propulsore e gas d'imballaggio.
Gli additivi alimentari possono essere approvati soltanto: 
qualora sia dimostrata l'esistenza di una sufficiente necessita' tecnologica e l'obiettivo ricercato non possa essere conseguito con altri metodi praticabili dal punto di vista economico e tecnologico; se non presentano un pericolo per la salute del consumatore nelle dosi proposte, per quanto attualmente consentano di giudicare i dati scientifici a disposizione; se non inducono il consumatore in errore. 

L'uso di un additivo alimentare viene consentito soltanto se è stato provato che esso presenta vantaggi dimostrabili per il consumatore; a tal fine è necessario dare una prova della "necessità". L'impiego di additivi alimentari deve soddisfare gli obiettivi seguenti, e solo allorquando tali obiettivi non possano essere conseguiti con altri mezzi utilizzabili dal punto di vista economico e pratico e che non presentino un rischio per la salute del consumatore: 
a) per conservare la qualità nutritiva dell'alimento, una sua riduzione intenzionale è giustificata soltanto se l'alimento non rappresenta un elemento significativo di una dieta normale, o se l'additivo è necessario per la produzione di alimenti per gruppi di consumatori che hanno necessità dietetiche particolari; 
b) per fornire ingredienti o costituenti necessari per alimenti prodotti per gruppi di consumatori che hanno fabbisogni dietetici particolari; 
c) per aumentare la conservabilità o la stabilità di un alimento ovvero per migliorarne o le proprietà organolettiche, a condizione che ciò non modifichi la natura, la sostanza o la qualità dell'alimento in modo da ingannare il consumatore; 
d) per fornire un ausilio per la produzione, la trasformazione, la preparazione, il trattamento, l'imballaggio, il trasporto ovvero l'immagazzinamento del prodotto alimentare, a condizione che l'additivo non venga utilizzato per nascondere gli effetti dell'impiego di materie prime difettose ovvero di prassi o tecniche indesiderate (ivi comprese quelle antigieniche) durante lo svolgimento di una qualsiasi di queste attività.

Per determinare gli eventuali effetti nocivi di un additivo alimentare o dei suoi derivati, questo deve essere sottoposto alle opportune prove e ad una valutazione a livello tossicologico. Tale valutazione deve anche tenere conto di qualsiasi effetto di cumulo, di sinergia o di potenziamento dovuto al suo impiego, nonché del fenomeno dell'intolleranza umana alle sostanze estranee all'organismo. 
Tutti gli additivi alimentari devono essere tenuti sotto costante osservazione e devono essere riesaminati, qualora necessario, alla luce di condizioni modificate d'impiego e di nuove informazioni scientifiche. 

Gli additivi alimentari devono essere sempre conformi ai criteri di purezza provati.

L'approvazione degli additivi alimentari deve: 
a) specificare i prodotti alimentari ai quali si possono aggiungere tali additivi e le condizioni dell'aggiunta; 
b) essere limitata alla dose più bassa necessaria per conseguire l'effetto desiderato; 
c) nella misura del possibile, tenere conto di una dose giornaliera ammissibile o di qualsiasi definizione equivalente fissata per l'additivo alimentare e dell'apporto giornaliero probabile dello stesso additivo da tutti i prodotti alimentari.
Qualora l'additivo alimentare debba essere utilizzato in alimenti destinati a gruppi particolari di consumatori, si deve tener conto della dose giornaliera probabile di tale additivo per quel tipo di consumatori. 

Nitrati & Nitriti
Sono regolati dal Decreto Ministeriale n° 209 del 27/02/1996 D.L 206 che ne stabilisce modalità d'uso e limiti residuali. Appartengono alla categoria dei CONSERVANTI, ovvero "sostanze che prolungano il periodo di conservazione dei prodotti alimentari proteggendoli dal deterioramento provocato da microrganismi".

I nitrati, rispetto ai nitriti, vengono tollerati di più dalla legge in quanto sono meno pericolosi.
L'aggiunta dei nitrati e dei nitriti alle carni conservate ha questi tre principali scopi:
A) mantenere un colore rosso vivo nelle carni che diversamente tenderebbe al bruno, o al grigio;
B) esaltarne l'aroma e il sapore;
C) svolgere un'azione batteriostatica/battericida nei riguardi della flora microbica indesiderata;
D) svolgere un'azione antiossidante nell'impasto.

L'azione cromatica di questi additivi si esplica con la formazione Nitrosomioglobina/ Nitrosoemoglobina (prodotti crudi) o Nitrosomiocromogeno (prodotti cotti).
Il contributo aromatico svolto dai nitrati/nitriti riguarda alcune caratteristiche del tipico aroma "salmistrato" dei salumi.
L'azione batteriostatica/battericida riguarda in via prioritaria i microrganismi anaerobi, con particolare riferimento al Clostridium botulinum. Una delle motivazioni scientifiche più convincenti della necessità di questi additivi invoca proprio la capacità ad escludere il rischio da botulismo conseguente al consumo di salumi. Questa azione viene svolta prevalentemente dall'acido nitroso derivante dal nitrito. Anche altre specie microbiche sono interessate, quali Enterobatteriaceae (salmonella spp. ed altri), Staphilococcus aureus, Listeria, ecc. Il meccanismo d'azione

Le trasformazioni chimiche che stanno alla base degli effetti ottenibili dai nitrati e dai nitriti sono le seguenti:
1. nitrato + batteri (micrococchi ed altri) = nitrito
2. nitrito + acidità = acido nitroso
3. acido nitroso + riduzione = ossido di azoto
4. ossido di azoto + mioglobina/emoglobina = nitrosomio/emoglobina

E' l'ossido di azoto che si lega al Fe del gruppo eme della mioglobina dei tessuti muscolari e l'emoglobina del sangue, con formazione di nitrosomioglobina e di Nitrosoemoglobina di colore rosso vivo, stabili nel tempo e anche dopo cottura (Nitrosomiocromogeno di colore rosa).
Il nitrato ha una funzione di deposito per il nitrito. L'enzima Nitrato-reduttasi, è di origine batterica (micrococchi). Questi m.o si ritrovano normalmente nelle salamoie e nelle carni fresche. Affinché questa reazione avvenga è però necessario che il pH > 5,4 -5,5 e questo va tenuto presente perché, questa condizione non si verifica sempre. Soprattutto nei salami ad elevata acidità bisogna fare molta attenzione, in quanto, scendendo il pH molto velocemente potrebbero venire inibiti i micrococchi che di conseguenza non trasformeranno i nitrati a nitriti.
Un altro evento che mi può mettere a rischio i micrococchi è il trattamento termico dei prodotti cotti.

L'acido ascorbico è un antiossidante che facilita la creazione di un ambiente riducente e in tal modo fa da mordente del nitrito, cioè potenzia la sua efficacia.

Non si conoscono altri additivi capaci di esplicare efficacemente le funzioni dei nitrati/nitriti. In effetti queste particolari proprietà sono possedute soltanto dallo ione NO2, sia che provenga dai nitriti aggiunti come tali, sia che provenga dalla riduzione dello ione nitrato NO3- aggiunto sotto forma di nitrato di sodio o di potassio. L'uso dei nitrati e dei nitriti in certi alimenti e nelle carni conservate in particolare è considerato un processo indispensabile per ottenere prodotti gradevoli ed ineccepibili sotto l'aspetto igienico.

Rischi che comportano
I nitriti hanno una maggiore tossicità acuta (DL50 inferiore a 200) e formano nitrosammine cancerogene.
I rischi sono rappresentati dal pericolo dell'insorgenza di metaemoglobinemia infantile: ma a questo tutte le legislazioni hanno ovviato con la proibizione dell'aggiunta di questi additivi negli alimenti destinati all'infanzia.
L'altro rischio, più insidioso e più grave, è quello derivante dalla possibilità di reazione tra acido nitroso e ammine secondarie con formazione di nitrosammine, composti di cui numerosi ricercatori hanno dimostrato e confermato la potenziale azione cancerogena. 
In vitro da acido nitroso e ammine secondarie si formano proprio delle nitrosammine; il problema è constatare se questa reazione possa avvenire negli alimenti durante la loro conservazione, oppure durante la loro digestione nell'organismo umano. Occorre prendere in esame i precursori di questa reazione e cioè i nitriti, i nitrati e le ammine. L'uso di nitrati e nitriti come additivi alimentari è permesso solamente per alcuni alimenti e a dosi ben fissate (vedi tabella). Le dosi massime concesse vanno dai 300 mg/Kg di nitrati a 150 mg/Kg di nitriti.
Le ammine sono prodotti intermedi nel metabolismo delle proteine delle piante, degli animali e dei microrganismi: si trovano quindi tracce in tutti gli alimenti. Nonostante che questi contengano quantità molto piccole di ammine, esiste la possibilità che formino nitrosammine durante l'immagazzinamento o la cottura. Tuttavia la bassa concentrazione dei precursori nell'ambiente generalmente neutro degli alimenti, e la possibilità di reazioni interferenti permettono di ipotizzare che si possano formare quantità veramente esigue di nitrosammine. In effetti si è dimostrata l'esistenza di nitrosammine in numerosi alimenti in quantità di ordine di parti per miliardo. 
Un'altra possibilità di formazione di nitrosammine si verifica durante la digestione, favorita dall'ambiente acido dello stomaco. Le esperienze decisive sono state quelle effettuate in vivo alimentando animali da esperimento con diete normali addizionate di ammine e nitriti. I risultati ottenuti con diete di questo tipo sono stati positivi: si è avuta l'insorgenza di tumori. Lo stesso risultato non si è ottenuto somministrando uno solo dei precursori. Queste sperimentazioni sono state condotte usando un nitrito e vari tipi di ammine secondarie fra le quali alcuni farmaci; è stato sulla base di questi risultati che anche in Italia è stato deciso di limitare drasticamente l'uso di certi analgesici a base di composti contenenti gruppi amminici secondari o terziari. Concludendo, si può dire che i nitrati e soprattutto i nitriti siano additivi sui quali gravano forti sospetti, tanto che il comitato FAO-OMS si è limitato a indicare una DGA provvisoria di 0,2 mg/kg per i nitriti e di 5 mg/kg per i nitrati. Anche le recenti e severe limitazioni relative a certi farmaci a base di composti contenenti gruppi amminici secondari o terziari sono la conseguenza dell'attuale stato delle nostre conoscenze che ci dà fondato motivo di preoccupazioni e di dubbio nei confronti della possibile formazione di nitrosammine cancerogene nell'organismo umano: nel caso dei farmaci la preoccupazione è maggiore che non nel caso degli alimenti, perché essi possono essere usati a dosi alquanto elevate e per tempi prolungati.

Polifosfati
Inizialmente, venivano utilizzati soprattutto come agenti lievitanti chimici (pirofosfati), in quanto danno condizioni debolmente acide. Oggi vengono utilizzati nei prodotti cotti, in quanto aumentano molto la ritenzione idrica di questi limitando lo srink durante la cottura e di conseguenza avremo meno perdite e maggiore succosità del prodotto.

Il gruppo dei polifosfati comprende:
- fosfati
- difosfati
- trifosfati
- polifosfati

Il loro impiego, è stato messo in discussione più volte. Fondamentalmente sono innocui, però potrebbero provocare squilibrio nel rapporto Ca / P.
La legge regola la quantità utilizzabile per i vari prodotti:

v 0,4%è insaccati cotti
v 0,25% è prosciutti e spalle cotte

I polifosfati hanno la funzione di stabilizzare le proteine miofibrillari, escludendo i cationi bivalenti (Ca e Mg), che fanno instaurare legami laterali alle molecole proteiche, aumentando quindi la capacità a trattenere acqua.
I polifosfati, inoltre hanno anche azione emulsionante, così che i grassi non si separano dagli altri componenti facendo in modo che diminuisca lo SRINK; anche perché aumenta l'emulsione con le componenti proteiche (miofibrillari solubili) e così, al momento della cottura si ha un reticolo proteico che trattiene le parti liquide come una rete.

GLI ANABOLIZZANTI
Sostanza Anabolizzante: sostanza chimica, generalmente di natura steroidea, che favorisce l'anabolismo proteico agendo sui fattori di conversione dell'azoto proteico durante la trasformazione delle materie nutritive in tessuto vivente (FAO/OMS 1975).
Ormone: sostanza chimica specifica, elaborata da un gruppo di cellule o da un organo, che per via umorale, esercita un'azione specifica su un altro tessuto o organo.
Categorie di anabolizzanti impiegati: ormoni sessuali o analoghi; sostanze antitiroidee; ormoni glicocorticoidi; ormone somatotropina; beta agonisti; sostanze tranquillanti.

Vi è un grande interesse economico che spinge verso l'uso dei promotori di crescita, dal momento che si possono ottenere: a) miglioramenti dei parametri zootecnici di accrescimento e produzione; b) miglioramenti qualitativi sul prodotto finale, tali da meglio soddisfare le aspettative del consumatore (carni magre); c) riduzione dei costi; d) aumento dei ricavi; e) amplificazione dei profitti.
I promotori di crescita più efficaci sono le sostanze anabolizzanti; l'uso delle sostanze anabolizzanti nella CEE è vietato; il commercio e l'uso di tali sostanze al nero è diffuso; sempre nuove molecole vengono utilizzate al fine di disporre: 1) trattamenti e sostanze più difficili da rilevare ai controlli; 2) sostanze anabolizzanti più efficaci.

Pericoli chimici non intenzionali:
Di origine naturale: es. Mercurio
Di origine industriale e urbana (frutto delle attività produttive): es. Mercurio, Cadmio, Piombo; Cromo; Rame; Alluminio; PCB e Diossine; Esteri fosforici; Idrocarburi; Composti aromatici

CONTAMINAZIONE DA PCB E DIOSSINE
Caratteristiche chimiche. Nell'uso corrente, il termine improprio di "diossine" indica un gruppo di sostanze chimiche etero-aromatiche polialogenate che appartengono alle due famiglie chimiche molto simili identificate come policlorodibenzodiossine PCDD (N = 75) e policlorodibenzofurani PCDF (N = 135).
Le diossine sono formate da due anelli aromatici uniti tra loro da ponti ossigeno (due per le PCDD, uno solo per i PCDF), e caratterizzati dalla sostituzione di uno o più atomi di idrogeno con atomi di cloro (Figura 3). In particolare la tossicità è causata dalla simultanea presenza di atomi di cloro nelle posizioni 2,3,7,8, mentre, una volta verificata questa condizione, si osserva una diminuzione della tossicità stessa con l'aumentare del grado di clorurazione. A titolo di esempio, dunque, la 1,2,3,7,8,9-HxCDD è meno tossica della 2,3,7,8-TCDD, mentre la 1,2,7,8-TCDD ha tosicità nulla.
Grazie a tutte le possibili disposizioni degli atomi di cloro sulla struttura di base, la famiglia delle PCDD comprende 75 composti, fra cui il più noto e il più tossico è rappresentato dalla 2,3,7,8-tetraclorodibenzodiossina (o 2,3,7,8-TCDD). E' forse la sostanza più tossica che si conosca, e si misura in nanogrammi, cioè in miliardesimi di grammo. 
La famiglia chimica dei PCDF è invece formata da 135 composti, i cui effetti sono identici a quelli della diossina.

Anche i PCB costituiscono un gruppo di sostanze alogenate (N = 209), provenienti dalla clorurazione (per sostituzione (più o meno numerosa) degli atomi d'idrogeno con atomi di cloro) del bifenile. Si presentano sotto l'aspetto di olii a bassa viscosità, di colore giallino, ma di peso specifico superiore a quello dell'acqua. Ciò significa che mentre un comune olio minerale galleggia sull'acqua i PCB in essa affondano (ovviamente nulla si può dire rispetto a miscele dei due componenti). 
Le "diossine" d'interesse tossicologico hanno proprietà chimico-fisiche abbastanza simili nel senso che sono (a) altamente lipofile, (b) sostanzialmente insolubili in acqua, (c) molto stabili chimicamente e fisicamente (fa eccezione una certa labilità fotochimica), e (d) in genere estremamente persistenti nell'ambiente e nei sistemi biologici. Considerazioni simili possono essere fatte per i PCB, soprattutto per quelli con più alto grado di clorosostituzione.
Fonti di contaminazione. Le "diossine" vengono prodotte intenzionalmente solo in piccolissime quantità ("chimica fine"). La loro presenza nell'ambiente e nelle matrici ambientali in genere (es. alimenti) non è dunque legata alla produzione intenzionale. I PCB invece sono stati prodotti industrialmente su larga scala e per molti anni, e destinati a un'ampia varietà di utilizzazioni. Nei paesi europei, l'ultimo impiego di rilievo è stato quello di fluido dielettrico.
Origine delle Diossine:

SOTTOPRODOTTO INDESIDERATO DI PROCESSI INDUSTRIALI:
- Produzione del DDT (insetticida). 
- Produzione del 2,4 D (diserbante),) e di altri composti ancora. 
- Produzione del 2,4,5 TCP (conservante per legno).
- Produzione dell'acido 2-4-5 triclorofenossiacetico (diserbante "Agente Orange").
- Produzione dell'Esaclorofene (germicida).
- Produzione del PVC (materiale plastico).
- Incenerimento di rifiuti per combustione incompleta.
Origine dei PCB:

1. PRODUZIONE INDUSTRIALE:
- Olio isolante (edifici, treni, tram, metropolitane, elettrodomestici);
- Conduttore di calore (riscaldatori e refrigeratori);
- Olio lubrificante (particolari apparecchiature);
- Elasticizzante (colle, vernici, asfalto, inchiostro);
- Elasticizzante e isolante (fili elettrici, nastri isolanti);
- Elasticizzante e ignifugo (fibre sintetiche, plastiche, gomme);
- Carte;
- Ecc.

2. SOTTOPRODOTTO

Aspetti tossicologici rilevanti. Nella sperimentazione animale, il termine più studiato delle "diossine" (la 2,3,7,8-T4CDD o TCDD) è risultata potentemente (a) immunotossica (es. immunodepressione), (b) teratogena, e (c) cancerogena. Il gran numero di risultati sperimentali disponibili hanno fatto collocare la TCDD in Classe 1 (cancerogeni umani) dalla IARC (1997).
La TCDD risulta indurre effetti tossici nei processi riproduttivi e dello sviluppo. Essa è altresì considerata un pericoloso "modulatore" o "sregolatore" endocrino (endocrine disruptor).
Per analogia con le proprietà chimico-fisiche e tossicologiche della TCDD, altre 16 "diossine" (tutte clorosostituite alle posizioni C2, C3, C7, e C8) vengono considerate rilevanti ai fini della gestione del pertinente rischio tossicologico e ambientale. Esse sono ritenute in genere meno pericolose della TCDD ma additive a essa in quanto l'azione tossica si esercita secondo meccanismi simili.
La capacità delle "diossine" d'indurre effetti tossici anche a esposizioni molto basse, dà a tali sostanze grande rilevanza sanitaria.
I livelli analitici delle diverse "diossine" possono essere espressi in equivalenti di tossicità di TCDD (unità TE o TEQ) tramite l'impiego di fattori di conversione analitico-tossicologici: in uso in Italia, è il sistema I-TEF. Una volta convertiti, tutti i 17 valori TE possono essere sommati in un unico dato TE.
Usando i fattori equivalenti di tossicità internazionalmente accettati (TEF) che riferiscono la tossicità delle varie diossine alla 2,3,7,8-TCDD (il cui TEF è appunto unitario) (NATO/CCMS, 1988), si calcola dunque la tossicità dell'emissione sommando la concentrazione di ogni congenere, ciascuna moltiplicata per il corrispondente TEF.

Anche i PCB sono sostanze molto tossiche, per le quali viene riportato un ampio spettro di effetti nocivi. Intrinsecamente meno potenti delle "diossine", i livelli di concentrazione con i quali i PCB ricorrono negli alimenti, in genere molto più elevati di quelli presentati dalle prime, ne innalzano tuttavia comparativamente la pericolosità. Alcuni PCB sono noti per produrre effetti tossici con gli stessi meccanismi delle "diossine" (PCB "diossina-simili"); nella valutazione del rischio, essi vengono convertiti in unità TE ed eventualmente sommati agli altri livelli TE misurati.
I PCB contengono in genere minute quantità di "diossine", i cui livelli possono però aumentare anche di alcuni ordini di grandezza.

Contaminazione da PCB e diossine: cronistoria fino ai giorni nostri
1881: sintesi dei PCB.
1930-1960: largo impiego industriale dei PCB.
1967: la F.D.A. americana avvia le ricerche sui PCB.
1967: inquinamento del golfo di Escambia in Florida, per "fuoriuscita" di PCB da un impianto industriale.
1969: i PCB vengono rilevati in latte bovino in Virginia, provenienti da erba contaminata con un erbicida.
1969-1970: la F.D.A. fissa i limiti di tolleranza per vari alimenti.
1970: i PCB inquinano il latte in Ohio; provenivano dalla vernice del silos contenente il foraggio.
1971: contaminazioni da PCB negli alimenti vengono segnalati in Giappone.
1971: incidente di Bolshover (UK) con grave contaminazione da Diossina.
1972: nel Maine, più di 1 milione di pulcini contaminati vengono sacrificati.
1977: incidente di Seveso.
1979: vengono effettuate le prime ricerche in Italia.

Esposizione. In tutte le specie animali, la principale via d'esposizione a PCB, PCDD, e PCDF è l'alimentazione. Nel caso dell'essere umano, la dieta copre più del 95 % dell'assunzione giornaliera media.

Nei paesi industrializzati, l'esposizione giornaliera media "di fondo" della popolazione generale alle "diossine" è stimata intorno a 1 pgTE/kg-bw (1 picogrammo = 1 miliardesimo di mg) (ca. 100 pgTE/individuo al giorno); il contributo dei PCB "diossina"-simili è grossolanamente dello stesso ordine di grandezza, portando l'esposizione giornaliera (intake alimentare) totale a ca. 2 pgTE/kg-bw (ca. 200 pgTE/individuo al giorno).
Sottogruppi di popolazione a rischio possono raggiungere livelli espositivi (e di rischio) considerevolmente superiori. Ai livelli espositivi discussi, la stima del rischio cancerogeno in eccesso viene eseguita con modelli lineari.
I maggiori carrier alimentari di PCB, PCDD, e PCDF sono le matrici grasse d'origine animale, e dunque le componenti alimentari che ne contengono. 
In relazione all'assunzione di PCB diossina-simili e diossine, nel 1998, un gruppo di esperti del WHO adottava un TDI di 1 pgTE/kg-bw come valore "tendenziale" fortemente raccomandato. Il precedente valore, peraltro adottato nella gestione del rischio anche in Italia, era stato di 10 pgTE/kg-bw (1989). Questa valutazione ci indica che al momento l'esposizione al rischio è circa il doppio della tolleranza ammissibile.

BIOTOSSINE NEI PRODOTTI DELLA PESCA
La Paralitic Shellfish Poisoning. E' sostenuta da una serie di tossine (18) della gruppo della saxitossina, prodotte da dinoflagellate, quali quelle appartenenti ai generi Alexandrium e Gimnodinium responsabili di bloom algali, isolate da molluschi bivalvi e da pesci plantofagi. La sintomatologie che insorge dopo una breve incubazione, (30 minuti) è caratterizzata da parestesie delle labbra, della lingua, incapacità a mantenere la stazione eretta, perdita dell'equilibrio, nei casi più gravi morte per paralisi respiratoria (intorno al 10% dei casi). 
La Diarrhetic Shellfish Poisoning da molluschi bivalvi (soprattutto mitili e pettini) costituisce un rischio sanitario anche per i molluschi raccolti entro il bacino del Mediterraneo dalla fine degli anni '80, avendo interessato le coste adriatiche. La tossina, rappresentata da acido okadaico ed altri composti, viene prodotta da dinoflagellate appartenenti al genere Dinophysis: perché i molluschi possano rappresentare un rischio sanitario bastano poche centinaia di cellule algali per litro di acqua. La sintomatologia è esclusivamente gastroenterica, insorge dopo 3-12 ore, e dura fino a qualche giorno.
La cinguatera costituisce una sindrome clinica caratterizzata da sintomatologia gastroenterica (vomito e diarrea) e nervosa (parestesie, astenia, artralgia, midriasi). La mortalità può raggiungere l'1%. Responsabili sono due principi tossici isolati nel 1989 in pesci e in una dinoflagellata bentonica, Gambierdiscus toxicus. Quest'ultima sarebbe la produttrice della tossina, anche se non si può escludere la responsabilità di altre dinoflagellate. La tossina è stata identificata su circa 400 specie fra pesci e molluschi che vivono in acque calde, tropicali e subtropicali. 
Neurotoxic Shellfish Poisoning, Amnesic Shellfish Poisoning e intossicazione da Venerupina hanno una importanza minore. Sono sindromi tossiche conseguenti a consumo di molluschi lamellibranchi contaminati, aventi caratteri endemici: la prima situabile nelle coste della Florida e del Golfo del Messico, la seconda nelle coste atlantiche del Canada, la terza in aree costiere giapponesi.
Fra le biotossine riscontrabili in carne di pesce spicca per pericolosità la tetradotossina. Le intossicazioni da pesci appartenenti alla famiglia delle Tetraodontidae costituiscono infatti un problema molto grave in Giappone, dove dei molti casi segnalati il 50% ha un esito letale. La sintomatologia é gastroenterica e nervosa con vomito, diarrea, parestesie alla faccia, alle dita, morte per paralisi respiratoria. La tossina viene prodotta da batteri simbionti, molto probabilmente ospiti delle profondità marine, e va a concentrarsi nelle gonadi e nel fegato dei pesci. Questa intossicazione è stata tristemente famosa nel 1977 in Italia, per la segnalazione di casi conseguenti a pesce di importazione venduto come coda di rospo.

AMMINE BIOGENE
ammine alifatiche: cadaverina, putrescina, spermina e spermidina; 
ammine aromatiche: istamina, triptamina, tiramina.

Intossicazione da Istamina
La sindrome sgombroidea si colloca tra le più frequenti intossicazioni alimentari con un impatto importante sulla salute pubblica. Il consumo di pesce fresco o inscatolato, contenente elevate quantità di istamina e di altre amine vasoattive, causa il cosiddetto "Avvelenamento da sgombroidi".
Genesi della contaminazione. La parte rosso-scura del tessuto muscolare dei pesci della famiglia Scombridae e Scomberascidae (tonni, sgombri, sarde, sardine, acciughe etc.), contiene elevate quantità di istidina libera. Alcuni germi, di comune riscontro sulla cute dei pesci, nell'ambiente marino ed in quello terrestre (specialmente Coliformi quali Proteus morgagnii, Escherichia coli, Klebsiella spp, ma anche Pseudomonas aeruginosa), sono in grado, tramite l'enzima istidina decarbossilasi, di trasformare, post-mortem, l'istidina presente nel tessuto muscolare delle specie ittiche anzidette, in istamina. Lo stesso enzima è presente in quantità variabili nel tessuto muscolare dei pesci, contribuendo per via endogena alla formazione dell'istamina, già prima che avvenga la contaminazione microbica. 
Altre sostanze sono probabilmente coinvolte nella sindrome con effetto sinergico all' istamina: la letteratura riferisce la presenza di potenziatori non identificati dell'azione dell'istamina, oltre a quella di diammine biogeniche come la putrescina, la cadaverina e la triptamina.
Il consumo di pesce azzurro, di tonno, di acciughe, di aringhe, è stato la causa di intossicazioni da istamina in diversi paesi (USA, Gran Bretagna, Giappone).
La "sindrome sgombroidea" è considerata negli USA una delle più comuni forme d'intossicazione per ingestione di pesce. I casi riportati in Europa e in Italia, invece, sono pochi e scarsamente documentati. La confusione con i sintomi di altre malattie, rende difficile il riconoscimento di questa intossicazione.

Le manifestazioni cliniche dell' intossicazione riguardano l'apparato gastrointestinale (nausea, vomito, diarrea) il sistema nervoso centrale (vertigini, cefalea), la cute (rush) ; raramente si osservano disturbi respiratori e ipotensione. L'inizio della sintomatologia è rapido (20-30 minuti dall'assunzione dell'alimento) e i disturbi, abitualmente di lieve entità, si risolvono generalmente in breve tempo; solitamente durano meno 24 ore.
La sindrome, sebbene frequente, viene spesso diagnosticata come reazione allergica alimentare.
Un contenuto normale di istamina, nelle specie ittiche sopra menzionate, è mediamente dell'ordine di 0,5 - 25 mg/Kg. La quantità di Istamina in grado di provocare effetti patologici, in soggetti di 70 Kg di peso corporeo varia, a seconda degli autori, da 8 a 40 mg (lieve avvelenamento), da 70 a 1000 mg (disturbi di entità moderata). Oltre1000 mg, per alcuni ricercatori e oltre 4000 mg, per altri ricercatori, darebbero luogo a disturbi gravi.
Convertendo il primo livello (8 mg) in apporto giornaliero, considerando un consumo di 60 g di pesce, si rileva che il contenuto di istamina in grado di provocare effetti tossici è pari a 133,33 mg/Kg di alimento tal quale.

Caratterizzata da un'evoluzione solitamente benigna e da una sintomatologia in genere di lieve entità, tale intossicazione raramente richiede l'ospedalizzazione.
Può causare complicazioni e gravi conseguenze negli anziani e nelle persone che soffrono di cardiopatie.
Benché la sindrome sgombroidea sia fra le più frequenti forme di intossicazione alimentare, occorre tenere presente che gli alimenti a rischio di contaminazione da istamina sono molteplici. 

PERICOLI CHIMICI
Cessioni da materiali a contatto con l'alimento: involucri, superfici di lavoro, utensili, inchiostro ed etichette

STIMA DEL RISCHIO ALIMENTARE DI NATURA ABIOTICA
Identificazione dei pericoli abiotici. Pericoli abiotici. Per le sostanze di cui si vuol calcolare il rischio alimentare chimico o fisico i dati e le informazioni necessarie devono individuare se la presunta tossicità sia di tipo acuto, a breve termine (sub-acuta) o a lungo termine, sub-cronica o cronica. I dati relativi alla tossicità a breve e a lungo termine divengono essenziali una volta che le informazioni in nostro possesso hanno escluso effetti tossicologici acuti. La tossicità a lungo termine riguarda sia l'eventuale azione sulla sfera riproduttiva, sia l'attività cancerogena (Cerutti G. 1989). L'eventuale cancerogenicità della molecola deve essere valutata sia nella variante genotossica, conseguente ad alterazioni indotte direttamente sul genoma cellulare, che in quella epigenetica, connessa a modificazioni dei meccanismi di regolazione del ciclo cellulare provocate dallo stimolo proliferativo indotto dalla sostanza (Mantovani A., Civitareale C 1993).
La complessità di questo ambito del rischio comporta un uso modesto dei dati epidemiologici nella identificazione dei pericoli. Più spesso sono le informazioni provenienti da prove sperimentali, effettuate su animali da esperimento o su altri substrati biologici nei laboratori di tossicologia, che ci guidano. In gran parte dei casi il percorso svolto dai ricercatori segue una logica induttiva, procedendo dall'analisi della tossicità acuta, per arrivare a quella cronica. In altre parole, il potere tossicologico viene stabilito pressoché in assenza di casistiche su malattie dei consumatori con chiara eziologia, sulla base di studi sperimentali che utilizzano modelli non direttamente assimilabili all'organismo umano.

Nel caso la sostanza in esame appartenga alla categoria degli ausili chimici impiegati volontariamente nelle produzioni alimentari, quali sostanze farmaceutiche, additivi, coadiuvanti tecnologici, le informazioni disponibili provengono da dati ottenuti mediante l'applicazione di procedure formalizzate, che ne devono attestare l'assenza di effetti tossicologici significativi alle normali condizioni d'impiego (sicurezza d'impiego").
Quando invece si affronta l'analisi del rischio di sostanze chimiche presenti in natura o prodotte industrialmente, ci si può imbattere in molecole e composti per i quali non si conoscono alcuna delle informazioni necessarie alla conduzione dell'identificazione dei pericoli.
In ambedue le evenienze comunque, dal momento che in tossicologia il pericolo è funzione del livello di assunzione, è necessario poter identificare i pericoli non solo sulla base di considerazioni qualitative, di tossicità potenziale, ma anche sulla base di dati quantitativi, che consentano di valutare il grado di "significatività del pericolo". Un tale approccio coinvolge aspetti di per sé appartenenti al campo di azione della fase successiva di "valutazione della relazione fra dose e risposta", ma risulta operativamente efficace nel semplificare il lavoro allorché i pericoli potenziali sono eccezionalmente numerosi e al contempo premono le legittime aspettative di chi deve prendere decisioni rapide nel campo della prevenzione.
In questa situazione, l'attribuzione ad una sostanza di un potere cancerogeno significativo comporta l'affrontare problematiche di non facile soluzione, che includono il tipo di tumore, le specie animali che hanno manifestato la risposta, il metabolismo, la farmacocinetica, il meccanismo di azione e le eventuali esperienze epidemiologiche (Paustenbach D.J, 1995). 

In anni recenti, la valutazione del potere cancerogeno delle singole sostanze chimiche ha subito importanti cambiamenti. Innanzi tutto non tutti gli agenti cancerogeni sono giudicati allo stesso modo gravi pericoli per la salute umana, dal momento che il potere cancerogeno e/o mutageno di una sostanza può variare entro range molto ampi. Risulta quindi estremamente importante poter effettuare delle classificazioni, in base alle evidenze analitiche possedute, tenendo presente la metodologia applicata. Alcune sostanze come l'ossido di etilene, ad esempio, sono mutageni sia in vitro che in vivo, mentre altri, come le diossine e i dieni ciclici, potenti cancerogeni, non mostrano alcun potere mutageno o genotossico in alcuno dei test tradizionali. Pericoli cancerogeni blandi, come la saccarina, possono richiedere dosi 10 milioni di volte superiori a quelle di cancerogeni del grado della aflatossina, per provocare la stessa risposta negli organismi animali.
Vi è poi una problematica estremamente delicata. Ciascun pericolo non deve essere valutato solo singolarmente. Sfortunatamente, l'organismo umano può venire a contatto simultaneamente, e non solo per via alimentare, con vari agenti dotati di tossicità cronica, per cui non possono essere sottovalutati gli effetti additivi, di antagonismo e di sinergia. Sempre nell'ambito delle problematiche relative a questa fase, occorre riconoscere che la qualità delle ricerche svolte non sempre possiede il livello di rigore e completezza scientifica necessario. Durante gli anni '90 si è preso consapevolezza che non tutti i dati sono uguali, perché non tutti i protocolli di ricerca sono analoghi. Il clima revisionista che ne è scaturito ha condotto a validare nuovi protocolli, conosciuti come "approcci basati sull'evidenza". Per il momento solo alcune sostanze chimiche sono state testate con queste metodologie, come la formaldeide, il cloruro di metilene e il cloroformio.
Stima dell'esposizione ai pericoli abiotici. Le prime stime dell'esposizione al pericolo sono state condotte per i pericoli fisici rappresentati dai radionuclidi. Questo lavoro ha rappresentato la pietra miliare sulla quale oggi possiamo procedere alla stima della esposizione per tutte le sostanze chimiche contaminanti. In questo campo la exposure assessment rappresenta la fase delle quattro paradigmatiche che negli ultimi anni ha apportato i miglioramenti più consistenti nella qualità delle informazioni, al punto che, in generale contiene minori incertezze rispetto alle altre fasi. 
E' fondamentale comprendere che un ampio numero di fattori devono essere considerati quando si considera la stima dell'esposizione ad un agente abiotico. Questo in alcuni casi può implicare procedure complicate per arrivare a capire come una sostanza chimica venga trasportata e si distribuisca nell'alimento. In molti casi di contaminanti ambientali, questa area del rischio alimentare deve essere considerata non solo come a sé stante, ma come parte di una esposizione globale derivante anche da altre vie di trasmissione, come quella aerea, per inalazione di polvere e vapori, o quella per contatto.

Una consapevolezza che ha tardato a proporsi nel campo della stima dell'esposizione ai pericoli abiotici, è che analogamente agli agenti biologici anche quelli chimici sono soggetti a forti modificazioni sotto l'azione di vari fattori. Ad esempio, l'emivita della diossina nell'ambiente è di soli 90 minuti quando essa è allo stato di vapore (in ragione della sua fotosensibilità), ma per contrasto, quella della tetraclorodibenzodiossina (TCDD) nel terreno, in ceneri volatili e nei sedimenti può arrivare fino a 50-500 anni. Per giunta, gli interventi tecnologici applicati durante la produzione possono aumentare o diminuire la concentrazione del contaminante chimico sul prodotto finito.
Sul piano procedurale, l'esperienza fatta negli Stati Uniti ha mostrato che la conduzione di questa fase comporta alcuni passi delicati.
Innanzi tutto, in ottemperanza al principio di cautela, un momento chiave dell'exposure assessment è rappresentato dalla definizione del "livello di massima esposizione individuale (LMEI)". A dispetto dei presupposti, ispirati alla massima prudenza, è accaduto che i risultati di queste analisi fossero mal interpretati dal consumatore o presentati in maniera sbagliata dagli stessi scienziati, al punto da provocare nella popolazione reazioni ingiustificate. Ad esempio, l'esposizione al pericolo è stata identificata in modo semplicistico nel LMEI, quantunque questa esposizione riguardi solo il 99,5° o il 99,9° percentile di tutta la popolazione esposta. In seguito a tale constatazione le autorità statunitensi hanno deciso di includere il riferimento al "caso peggiore" o al "LMEI" solo al fine di decidere se una esposizione può essere significativa nel caratterizzare un rischio.
Un'atra situazione critica è rappresentata dalla velocità con cui nel corso del tempo sono state migliorate le tecniche analitiche. Questo andamento, se da una parte ha condotto oggi a poter disporre di dati in precedenza solo stimabili con metodi matematico-statistici, porta con sé l'inconveniente di dover continuamente rivedere i calcoli fatti in precedenza.
Connessa a quest'ultima problematica è l'assunzione che quando l'agente contaminante non viene rilevato nell'alimento si registri una presenza pari al limite di rivelazione della metodologia analitica applicata. Allorché i livelli di contaminazione sono bassi, questa assunzione può condizionare marcatamente la realtà dei risultati.
Così, le autorità preposte hanno deciso di applicare fattori correttivi, come dividere per due il limite di rivelazione, o applicare la radice quadrata o altro.
Con il passare del tempo abbiamo imparato a caratterizzare in modo accurato i rischi che derivano dall'esposizione a particolari sostanze e che coinvolgono spesso una percentuale elevata di popolazione, cercano di mettere in rilievo quelle fasce di popolazione soggette a maggior rischio. Sebbene i rischi a cui questi individui sono sottoposti sia alto, esiste tuttavia la necessità di comprensione di quei rischi, e quindi l'obbiettivo si sposta verso l'analisi dei tipici livelli di esposizione per quella fascia di popolazione bersaglio. A questo proposito risulta importante descrivere il numero di persone esposte a ciascuno degli anticipati livelli di esposizione.
Per evitare ogni possibile problematica legata alle stime, gli esperti del settore invocano l'ausilio di monitoraggi biologici a conferma delle stime predittive. Una tale istanza può oggi essere soddisfatta mediante l'impiego di metodologie analitiche in grado di rilevare 1 parte per bilione, o per trilione e quatrilione di un contaminante in liquidi substrati quali il sangue, urina, capelli, feci, grasso, aria espirata. Con questo approccio si è potuto constatare a distanza di 15-20 anni dai fatti, che l'esposizione alla diossina dei veterani del Vietnam era stata solo modesta. (Paustenbach D.J. 1995)

Stima del rapporto dose/risposta nei pericoli abiotici. Nel caso in cui si consideri un agente abiotico, dobbiamo considerare alcune difficoltà aggiuntive, rispetto ai pericoli biotici. In particolare, nel caso in cui la risposta attesa da un agente appartenga al campo della tossicità cronica, come nel caso delle sostanze ad attività cangerogena, le informazioni necessarie per stimare la curva dose/risposta derivano interamente da prove effettuate su animali. Il problema più frequente è allora quello di riuscire ad estrapolare il comportamento conseguente ad ingestioni di dosi molto inferiori a quelle utilizzate nelle prove. In effetti, le sperimentazioni riportate in letteratura sono finalizzate a verificare se una tale sostanza abbia o no una certa proprietà tossicologica, per cui le dosi testate sono state quelle prefiguranti situazioni estreme.
La procedura matematico-statistica che applichiamo in queste situazioni non conduce a risultati affidabili sul piano scientifico. Innanzi tutto perché non sempre conosciamo la farmacocinetica e il meccanismo d'azione delle sostanze cancerogene, per cui, l'applicazione di una procedura matematica non può basarsi su basi biologiche. Infatti, oggi possiamo ipotizzare che i meccanismi impiegati dalle sostanze chimiche nel causare un tumore appartengono a tre ampie categorie: azione citotossica ripetuta, azione di promozione e azione di iniziazione. Alcuni tossicologi elencano addirittura almeno 9 tipologie di meccanismi.
Risulta estremamente importante caratterizzare la sostanza chimica per il meccanismo di azione posseduto. Infatti, nei riguardi delle sostanze che agiscono come mutagene o genototossiche, il modello di riferimento per la stima del rapporto fra dose e risposta è sostanzialmente diverso da quello caratteristico delle sostanze citotossiche o promotrici. Nelle prime, la curva espressa non è lineare. Conseguentemente, mentre può essere ipotizzata la dose a risposta "0" per i cancerogeni citotossici o promotori, non altrettanto facilmente può essere posizionato lo stesso punto della scala nelle sostanze genotossiche.
In secondo luogo, questo stato di incertezza viene amplificato dal fatto che la sola constatazione della risposta su organismi animali (per lo più roditori) non autorizza a ritenere che avvenga lo stesso in un organismo umano.
Con il fine di migliorare l'affidabilità delle stime, le autorità scientifiche hanno proposto, da una parte nuovi metodi matematico-statistici, in grado di raggiungere una maggiore accuratezza dei risultati, dall'altra hanno introdotto nuove tecniche analitiche capaci di descrivere la risposta indotta negli animali mediante modelli farmacocinetici basati su dati fisiologici. Quest'ultima metodologia è stata applicata a partire dal 1991, e attualmente possediamo dati sulla curva dose/risposta calcolati con questo metodo per alcune sostanze , fra le quali figurano benzene, tetraclorodibenzodiossina (TCDD), cloruro di vinile ed altri di grande valenza nella tossicologia alimentare (Paustenbach D.J. 1996).

Caratterizzazione dei rischi di natura abiotica. In ambito chimico la caratterizzazione di alcuni pericoli ha condotto a stime teoriche del rischio, sulle quali ancora molto si discute (Paustenbach D.J. 1996).
Un esempio può essere fornito dalla procedura con cui l'Agenzia statunitense per la Protezione dell'Ambiente (EPA) ha valutato il pericolo relativo alla contaminazione ambientale da diossina indotta da un inceneritore municipale. Il rischio teorico è stato stimato assumendo l'ipotesi che l'esposizione al pericolo riguardasse un bambino, abitante nelle vicinanze dell'inceneritore (entro 0,8 Km), il quale: a) si trova ad ingerire un quantità pari ad un cucchiaino colmo al giorno di sporcizia; b) risiede in una casa posizionata lungo il flusso di aria che proviene dall'inceneritore; c) mangia pesce pescato in un lago prospiciente all'inceneritore, nelle quantità tipiche del 95° percentile della popolazione; d) beve acqua contaminata dello stagno; e) mangia alimenti cresciuti nell'orto di casa; f) beve latte munto da mucche che hanno pascolato nel prato di casa. Sulla base di queste assunzioni ipotetiche, l'EPA stima che entro i 70 anni di vita del bambino, la probabilità che sia colpito da tumore per effetto dell'inceneritore è di 1/100 (Paustenbach D.J. 1996).

L'opinione comune degli esperti del settore è che in questo momento un incremento di rischio cancerogeno prodotto da una sostanza si situa entro un'area di scarsa significatività se non supera 1/1.000.000. Coerentemente a queste assunzioni, i massimi livelli residuali o i massimi livelli di contaminazione vengono posti entro range di rischio di cancerogenicità compresi fra 1/100.000 e 1/1.000.000 (Paustenbach D.J. 1996).

Può essere interessante comparare queste assunzioni con il rischio reale che attualmente un cittadino ha di sviluppare una patologia cancerogena nella sua vita. Gli stessi dati americani riportano che l'incidenza di questa patologia è del 30% della popolazione, e che in circa il 25% dei casi il decorso è mortale. In gran parte dei casi, le opportunità di praticare interventi di prevenzione dovranno essere valutate sulla base di una riduzione possibile del rischio compresa fra lo 0,25 e l'1,3%! (Paustenbach D.J. 1996).

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