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Ruolo del cane nella
società dei nomadi del Tibet
TRATTO DAL SITO WWW.IMOLOSSIDELTIBET.COM
TRADUZIONE A CURA DEL SIG. STEFANO BROVETTO
a cura di Robert B. Ekvall Seattle
articolo pubblicato dal “Central Asiatic Journal”, vol III, n 3, del 3 settembre 1963
Il ruolo del cane nella società dei nomadi tibetani, ha diversi aspetti; alcuni di questi sono ovvi,ciò che uno si aspetterebbe in qualsiasi società -ausilio nella caccia, guardia, ecc- e altre che appaiono il contrario di ciò che è ovvio; che riguardano l’integrazione sociale, e influenzano lo sviluppo della specificità di una cultura. In ogni caso il ruolo del cane è di sorprendente importanza, e meritevole di attenzione. Tuttavia, prima di discutere il ruolo del cane nella società dei nomadi tibetani, andrebbe presa in considerazione la posizione del cane nella società tibetana nel suo complesso, e l'atteggiamento tibetano in generale verso i cani. In molte società dell'Asia, il cane viene disprezzato, è letteralmente un fuoricasta, a stento tollerato come spazzino. Questo è particolarmente vero nelle società islamiche, dove l'infedele veniva definito sprezzantemente "cane", ma era altrettanto vero nella Cina tradizionale dove, fatta eccezione per gli spaniel di piccola taglia considerati degli status symbol e per quei cani allevati ed ingrassati per essere mangiati, la vita per il cane era miserevole. I cinesi hanno un vasto repertorio di frasi ingiuriose che contengono la parola "cane", ed i cinesi che abitano i confini tra Cina e Tibet nei momenti di esasperazione traggono soddisfazione dal definire i tibetani "barbari dalla testa di cane".
Fra i tibetani, al contrario, il cane gode di favori, e addirittura di onori nella tradizione, nel simbolismo, e nella vita quotidiana. L' anno del cane è l'anno dei buoni raccolti, e tra i dodici animali che danno il nome agli anni, il cane è con la tigre e il cavallo uno dei più favorevoli. Come simbolo di buona fortuna, gli viene attribuita la capacità di vedere spiriti e demoni, sicchè anche i suoi guaiti assumono un significato particolare. Mi La, il santo-poeta tibetano, disse al suo discepolo Ras Chung, che i cani che quest'ultimo aveva visto in sogno, rappresentavano Khaa aGro Ma (figure celesti femminili), o le cortigiane celestiali della dottrina tantrica. In alcune danze religiose sono permesse solo maschere con fattezze canine, e la dottrina prescrive all'adepto neofita di avere verso il Maestro l'atteggiamento di un cane verso il padrone -fedele e leale; senza obra di risentimento per quanto venga maltrattato. Nel cinese primitivo un popolo di barbari, i Ti, riuniti poi con i Ch'iang, e successivamente inglobati nell' Impero Tibetano, veniva rappresentato nella scrittura con gli ideogrammi dalla combinazione dei simboli del cane e del fuoco; e i cronisti cinesi dell'ottavo secolo, con l'atteggiamento denigratorio derivante dal sentirsi civilizzati, scrivono dei tibetani che "quando onorano i loro capi abbaiano come cani". I tibetani, al contrario, non trovano sconveniente che il cane stia accanto al focolare quando non serve che stia di guardia, e non provano imbarazzo nello spiegare che i tibetani mostrano la lingua in segno di saluto così come i cani leccano le mani del padrone e delle persone che apprezzano. Né si sentono sminuiti nel paragonarsi ai cani, creature che apprezzano e rispettano.
Come tutti coloro che considerano i cani come individui, e non solo anonimi animali, i tibetani danno ai loro cani nomi propri. Alcuni di questi nomi sono combinazioni della parola rGya, che può avere molteplici significati, soprattutto quello di "grande", con colori o altri termini, a formare definizioni come rGya Ser (il grande giallo), rGya dMar (il grande rosso), rGya Bo Mig bZHi (il grande quattro occhi), rGya sBrug (il grande drago), rGya dGe (il grande virtuoso). Altri nomi sono nomi di animali seguiti dal diminutivo vezzeggiativo PHrug (il giovane), quali Dom PHrug (il giovane orso nero), sPang PHrug (giovane lupo) e Seng PHrug (giovane leone). Ma moltissimi cani hanno nomi religiosi, che nella cultura fortemente religiosa dei tibetani è un indicatore del loro status e di quanto vengano tenuti in considerazione. Possono essere chiamati Sang rGyas (l'essere Buddha), Don aGrub (realizzazione degli scopi -uno dei nomi del Buddha-), sGroI Ma (salvatrice, o la dea Tara), e bKra SHis (benedizione).
L'atteggiamento di apprezzamento, e addirittura rispetto è ancora più pronunciato tra i pastori nomadidell'altopiano tibetano. Senza sentimentalismi fuori luogo -sebbene le donne e i bambini dimostrino molto affetto verso i cuccioli- essi riconoscono i loro cani come compagni , colleghi, e riconoscono il loro merito di alleati contro pericoli comuni. Vengono curati e trattati come pari. Durante l'esercizio del loro ruolo di guardiani hanno precisi diritti che stabiliscono come vanno e non vanno trattati; quali armi vanno usate e quali non vanno usate contro di loro, a meno che,naturalmente, non si sia in lite con i proprietari. Sassi, assicelle, fruste e corde con un peso all'estremità, la parte non appuntita delle lance e i dorsi delle spade si possono usare: ma armi affilate, punte di lancia e soprattutto armi da fuoco, anche se i colpi vengono esplosi in aria non possono essere usate. La posizione e il valore del cane sono espressi chiaramente nel proverbio tibetano che dice "Le tre proprietà più importanti di un uomo che vive nella natura sono il suo fucile, il suo cavallo ed il suo cane".
Gli animali che i nomadi tibetani allevano fanno parte di un ciclo produttivo, e ci si attende da loro la produzione di latte, carne, lana, pelliccia, pellame. I cani non fanno parte di questo ciclo produttivo. La loro carne non viene mangiata. I tibetani rigettano con ripugnanza la sola idea, e di rimando lanciano ai cinesi un epiteto che contiene la parola cane, chiamandoli KHyii SHa Za mKHan (mangiatori di carne di cane). I cani non vengono allevati per la loro pelliccia né per essere venduti, sebbene alcune pelli di quelli morti, o uccisi dai predatori vengono poste in vendita, e occasionalmente un nomade vende un cane, sempre ottenendo anche un buon prezzo, ma più come favore che per profitto. Ma è anche vero che la maggior parte dei cani che si trovano in Tibet provengono dalla terra delle tende, da quel mondo dove la maggiore disponibilità di alimenti proteici, quali scarti della produzione del burro, siero del formaggio, avanzi di macellazione, e carcasse di animali deceduti, favoriscono il mantenimento dei cani. Tuttavia, nessun nomade accetterebbe di essere considerato un commerciante di cani.
Solo i relativamente pochi cani utilizzati nella caccia danno un contributo diretto alle entrate dei loro proprietari. Né i cani danno un contributo nei trasporti, giacchè non è mai stato documentato un loro utilizzo come animali da tiro come nei popoli delle regioni polari o come negli indiani delle pianure nordamericane prima dell'arrivo dei cavalli. Durante gli spostamenti, tutto ciò che è richiesto al cane è di trasportare se stessi, e talvolta i cuccioli vengono addirittura sistemati in sacche e trasportati in sella. Ciononostante, essi godono di grande apprezzamento e del miglior trattamento, per se stessi e per i ruoli che svolgono. Sono ausiliari nella tecnica di sopravvivenza sussidiaria della caccia, e danno sicurezza -talvolta precaria, ma fondamentale- nell'attività primaria di sussistenza rappresentata dall'allevamento. Oltre a questi ovvi ruoli, i cani ne svolgono altri, che i tibetani tengono in scarso, se non nullo, conto. La loro funzione di creare privacy e "distanza sociale" in situazioni nelle quali si sente la necessità di entrambe. Aiutano a plasmare il comportamento ed il carattere dei bambini. E infine, sebbene il cane sia una delle "tre proprietà importanti di chi vive nella natura", come compagni delle donne e con i loro atteggiamenti di sfida alle persone a cavallo, riescono ad arginare gli atteggiamenti arroganti degli uomini. I cani da caccia avevano un ruolo di gran lunga più importante nelle epoche passate della storia tibetana, piuttosto che nel presente. Il termine generico per definire i cani da caccia è Ra KHyi (corral dog, cane da recinto) poiché la loro funzione è quella di spingere verso i recinti le prede minori, e di stanare con l'abbaio e circondare le prede maggiori. Racconti popolari e leggende secolari confermano l'uso di rGya (cani), SHa KHyi (cani da carne) e Ri KHyi (cani da montagna) nell'inseguire i cervi e circondare la selvaggina. Anche Marco Polo parla di "mastini grandi come asini, insuperabili nel catturare bestie selvatiche (in particolare il bue selvaggio)". Nel famoso incontro tra mGon Po rOo il cacciatore e Mi La (Milarepa) il poeta e santo dell'undicesimo secolo, la Cagna Rossa si distingue nella caccia al Cervo Nero, ma alla fine si converte alla dottrina della ricerca del bene di tutte le creature. Nei tempi moderni la diffusione di questa dottrina, e i precetti Buddisti contro l'uccidere, hanno rinforzato le antiche paure degli dei della caccia, che si oppongono al bracconaggio delle preziose mandrie selvatiche che custodiscono gelosamente, e di conseguenza la caccia ha perso importanza come fonte ausiliaria di sussistenza. Parallelamente è diminuito il numero dei cani da caccia tenuti dai nomadi, ed è diminuita l' importanza del loro ruolo. In alcune zone, pochi cani dalle orecchie appuntite (erette?) -principalmente fulvi o tigrati- sono tenuti per cacciare il cervo (musk deer).Vengono chiamati SHa KHyi (cani da carne,un termine generico per indicare i cani da caccia), e talvolta più specificamente SHwa KHyi (cani da cervo). Sono molto disomogenei per mantello, struttura e taglia, poichè la razza non è assolutamente pura. In una tribù dell'etnia Golok che ho visitato nell'estate del 1940, ho visto un certo numero di cani snelli, di tipo levrieroide, che ricordavano sia i Borzoi che i Saluki, e si presentavano in colori insoliti, come il fulvo chiaro, l'avorio ed il grigio cenere. Erano considerati inutili come cani da guardia, ma, come suggeriva il loro nome Wa KHyi (cani da volpe), venivano tenuti per la caccia alla volpe.
I cani da guardia, Srung KHyi (cane guardiano) o sGo KHyi (cane-porta), sono al contrario molto numerosi tra i pastori nomadi. Nessuna tenda ne ha meno di due, e i capi e coloro che se lo possono permettere arrivano ad averne anche venti o più. In un piccolo accampamento di sei tende, dove ho vissuto per diverse settimane, vi erano ventuno cani, una media di più di tre cani a tenda. Ci sono due varietà, o razze: il vero Mastino Tibetano, alquanto raro, e un altro ugualmente aggressivo e quasi altrettanto grande meticcio (mongrel). Quest'ultimo ha indubbiamente una certa componente di sangue di mastino. I mastini, chiamati Sang KHyi (Sang inteso come nome della razza) or gTSang KHyi (cane della provincia di Tsang) costituiscono ciò che i tibetani chiamano "spina dorsale" (bone line) della razza, sforzandosi di mantenere la razza pura. Il possesso di tali cani è da considerarsi uno status symbol, è difficilissimo trovarne uno in vendita, e se ciò accade il prezzo è solitamente quello di un buon cavallo. Hanno il tipico muso pesante, occipite fortemente pronunciato, labbra pendenti,gli occhi che mostrano il rosso (della congiuntiva),e i potenti arti anteriori dei mastini. La coda,piuttosto lunga, ha un pelo piuttosto folto e viene portata in un ampio ricciolo. Il colore è solitamente nero -sempre nero nella razza considerata "pura"- con focature su muso, collo e zampe, solitamente con del bianco sul petto, e focature sopra gli occhi, che gli hanno valso il nome di Mig bZHi Can (quattrocchi). Riguardo alla taglia, quello che possedevo pesava 160 libbre (72,6 kg). La caratteristica più tipica è il profondo abbaio, più simile alla tonalità di un corno da nebbia che alla voce di qualsiasi animale. I meticci da guardia, molto più numerosi, sono poco o nulla più piccoli, e altrettanto feroci. Ma il loro abbaiare non ha la profondità che distingue il mastino. I loro colori sono molto più variegati,dal nero al grigio-lupo, fino ad un raro bianco. Il loro pelo è un po' più lungo di quello dei mastini, hanno teste lievemente più larghe e piatte, con musi più appuntiti, e le code, molto frangiate, sono portate strettamente arrotolate sulla schiena.
Entrambe le varietà vengono utilizzate esclusivamente per la guardia alle proprietà, e sebbene un cane possa occasionalmente accompagnare il pastore, non vengono addestrati per la conduzione di greggi o mandrie. Eventualmente, si prestano comespazzini, sempre affamati, durante le operazioni di macellazione. Quando il bestiame muore inaspettatamente per malattie, o nella neve pesante della tarda primavera, i cani banchettano fino quasi a scoppiare. Tuttavia, il loro vero compito è quello di guardiani, e come tali sono feroci e sempre allerta. Scopo della loro vita, come dicono i Tibetani, è quello di "custodire la proprietà contro i predatori e i ladri", e nel compierlo ci mettono la loro vigilanza e la loro ferocia. Effettivamente, molti vengono castrati per aumentare il loro grado di attenzione, ma anche per diminuirne la ferocia e renderli meno propensi all'attacco verso punte di lancia o fendenti di spada, a rischio di venire feriti.
Durante il giorno pattugliano in branco il perimetro del campo, anche se la composizione del branco può variare, perchè i cani escono dal gruppo e vi rientrano lungo il percorso. I cani di ogni tenda si tengono piuttosto vicino alla tenda stessa, poiché un cane che si trovi lontano dalla sua tenda può trovarsi in difficoltà, circondato da più nemici che da amici. Essi rendono impossibile a chiunque di avvicinarsi all'accampamento senza essere notato; e a meno che il visitatore non sia un vero esperto nell'unica tecnica che permette ad un cavaliere di difendersi dai cani, l'avvicinamento viene presto fermato
Un uomo a piedi può usare un bastone, lanciare dei sassi, o, messo davvero alle strette, usare il dorso della sua spada; ma l'uomo a cavallo deve affidarsi al roteare di una corda con un peso all'estremità. La corda può essere quella della cavezza, o qualsiasi altra corda disponibile. Il peso può essere un frustino di legno o di corno, un picchetto da tenda, un osso, o qualsiasi oggetto dello stesso peso. La corda viene fatta roteare, in modo che il peso tracci un cerchio attorno; una corda lunga dodici piedi, (3,6 m) -che è il massimo che un cavaliere riesca ad utilizzare per proteggere se stesso e la propria cavalcatura- crea una sorta di zona di sicurezza circolare di 24 piedi di diametro, per se e per il suo cavallo, almeno finché riesce a mantenere la rotazione della corda, senza che essa venga fermata dal collo o dalla coda dell'animale, o dal fucile che porta sulla schiena, con la lunga forcella d'appoggio. Né deve colpire con il peso uno dei cani attorno al cerchio, perché il ritmo della rotazione ne risulterebbe bruscamente interrotto. Questa manovra, se compiuta correttamente e prontamente, può fermare i cani -ad eccezione di soggetti eccezionalmente violenti, che si slanciano nonostante la corda, o una lancia o una spada-mentre si attraversa un accampamento, o mentre si attende nei paraggi la reazione, il consenso o il benvenuto dagli abitanti della tenda più vicina.
Ogni legittimo approccio ad una tenda o ad un accampamento, tuttavia, si basa sulla speranza che prima o poi qualcuno verrà in aiuto a tenere lontani i cani per consentire di raggiungere l'ingresso della tenda. Una volta accolto e riconosciuto come ospite, lo straniero dovrà prestare attenzione a restare nella tenda -talvolta potrebbe comunque essere a rischio di morsicatura anche qui- e muoversi all'esterno solo accompagnato dai proprietari dei cani. In questo caso loro stessi devono prestare attenzione a muoversi nell'accampamento, perché i cani riconoscono solo i membri del proprio nucleo famigliare; a stento tollerati, gli stessi vicini di tenda devono muoversi con cautela.
Durante la notte il campo è affidato ai cani, che raddoppiano la loro vigilanza, e si aggirano tra le tende con eccitazione e strepitio, che talvolta calano solo per poi ricominciare con ringhi minacciosi al minimo rumore o movimento sospetto. Gli uomini che dormono ai confini dell'accampamento stabiliscono una strana simbiosi con i cani nel mantenere la guardia: le loro occasionali grida, e un colpo sparato in aria di tanto in tanto stimolano i cani, che a loro volta mantengono i cani in una insolita condizione di semi-veglia. Assieme costituiscono un allarme -per di più fornito di denti- contro i ladri e gli attacchi a sorpresa.
Ma i cani non sono solo abbaio e niente morsi. Ogni tanto le precauzioni non bastano e qualcuno viene morso; talvolta addirittura ucciso. Tre volte, durante gli otto anni che ho vissuto nell'Amdo ho sentito di un cavaliere che, per qualche motivo, non è riuscito a mantenere la rotazione della corda, e i cani, avvicinatisi, hanno afferrato ai garretti il cavallo che, spaventato, si è dato alla fuga sgroppando furiosamente. Il cavaliere è stato sbalzato -anche per la rottura della cinghia della sua sella- e cadendo in mezzo ai cani non si è più rialzato.
Non sono solo gli stranieri a correre tali rischi. Gli abitanti -adulti e bambini- possono essere morsicati gravemente anche nel loro stesso accampamento. In base alla mia esperienza, dopo le ferite da spada, le morsicature sono i più frequenti motivi di richiesta di primo soccorso. Tali incidenti possono causare malumori e rancori, ma gli attacchi dei cani non scatenano mai le faide e vendette che possono scaturire dall'uccisione di qualcuno in una rissa o un incidente con le armi da fuoco.
Per gentile concessione del Sig.
Maurizio Rivoira
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