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Il
cane di Pompei
Calco in gesso realizzato su uno scheletro di cane durante lo scavo della domus di Vesonius Primus a Pompei nell’Ottocento. Il cane conserva il collare con il quale era legato ad una catena, che gli impedì la fuga durante l’eruzione del 79 d.C.
( immagine: http://vulcan.fis.uniroma3.it/
)
L'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
( animazione: http://vulcan.fis.uniroma3.it/
)
La ricostruzione di un'eruzione avvenuta prima della nascita della moderna vulcanologia si basa su informazioni ricavate dalle cronache dell'epoca, quando ci sono, dallo studio dei prodotti eruttati e dal confronto con altri eventi eruttivi.
L'eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. distrusse intere città, tra le quali
Pompei ed Ercolano, presenta questa terna di fonti al completo. La cronaca consiste in un documento di Plinio il Giovane in cui, per la prima volta, viene descritta un'eruzione esplosiva.
I prodotti eruttati dal Vesuvio ricoprono i campi, riempiono le vie, le case e i templi delle città. Gli scavi archeologici continuano a mettere in mostra i grossi strati di pomici e ceneri che furono la causa e che conservano al loro interno le tracce dell'improvvisa tragedia.
Infine, il confronto con altre eruzioni sia del Vesuvio che di altri vulcani ha permesso, attraverso una serie di analogie, ulteriori controlli nella ricostruzione di quanto successe in quel tragico agosto di quasi duemila anni fa.
Il racconto di Plinio a confronto con le cronache di altre eruzioni
FENOMENI PRECURSORI
Dopo secoli di completo riposo, durante i quali le pendici del vulcano si erano ricoperte di fitta vegetazione, il risveglio del Vesuvio è annunciato da un terremoto avvenuto nel 62 o nel 63 d.C. che colse lo stesso imperatore Nerone mentre era impegnato a cantare in un teatro di Napoli.
Secondo Seneca, le scosse si ripeterono per diversi giorni, fino a che si fecero meno intense, ma ancora in grado di causare danni. Le città maggiormente danneggiate furono Pompei e Ercolano e, in misura minore, Napoli e Nocera.
Dall'estensione dell'area in cui le scosse hanno provocato danni, limitata alle vicinanze del vulcano, si ritiene che i terremoti non fossero molto profondi.
La terra deve essersi mossa di frequente anche nei 17 anni successivi, se Plinio il Giovane riferisce che immediatamente prima dell'eruzione del 79
per molti giorni si erano succeduti terremoti, ma non temevamo perché essi sono comuni in Campania.
Anche Dione Cassio (150-235 d.C.) riferisce che prima dell'eruzione vi erano stati terremoti e brontolii sotterranei e che i giganti erano stati visti vagare nella zona. Fin dalle mitologie più antiche, la visione dei giganti viene spesso associata agli eventi catastrofici della natura.
In molte case distrutte dall'eruzione e riportate alla luce dagli scavi archeologici sono state trovate tracce di lavori di riparazione provvisori, segno evidente di danni subiti in periodi di poco precedenti l'eruzione.
I terremoti sono i precursori più comuni che segnalano il risveglio imminente di un vulcano quiescente. Al Vesuvio, la stessa cosa si è verificata prima dell'eruzione del 1631, anche questa avvenuta dopo un lungo periodo di inattività. Nel descrivere l'eruzione del 1631, l'abate Braccini (1632) dice che la zona intorno al vulcano: "tremava quasi nel continuo".
I terremoti che precedono l'eruzione del 1631 sono avvertiti fino a Napoli solo la notte prima dell'eruzione: "Terremoti particolarmente forti avvennero in quella notte (...) con tanta forza che ritenemmo che la stessa città fosse divelta dalle fondamenta". Recupito (1632)
In alcune eruzioni recenti avvenute su vulcani quiescenti da tempo, come il St. Helens negli Stati Uniti nel 1980 e il Pinatubo nelle Filippine nel 1991, si sono registrati terremoti limitati all'area del vulcano e con profondità non superiori a qualche chilometro, a partire da due mesi prima dell'eruzione.
PRIMA FASE ERUTTIVA: colonna pliniana
L'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. inizia con la formazione di un'alta colonna di gas, cenere e lapilli, così descritta da Plinio:
La nube (...) a forma di pino, si sollevava alta nel cielo e si dilatava come emettendo rami
Plinio, da Miseno (21 km dal vulcano), può osservare la colonna eruttiva in tutto il suo sviluppo. La sua descrizione è tanto efficace che il termine pliniano viene utilizzato nella vulcanologia moderna per indicare una fase eruttiva durante la quale si forma una colonna sostenuta, formata da una miscela di cenere, pomici e gas.
Una fase pliniana è descritta anche nell'eruzione del 1631. La colonna deve essere tanto simile a quella del 79 che l'abate Braccini sente il bisogno di cercare le lettere di Plinio per confrontare quello che vedeva direttamente con quanto era stato descritto tanto tempo prima.
Analogamente, durante un'altra eruzione del Vesuvio, nel 1906, l'americano Frank Perret osserva che "i getti di fuoco si elevavano sempre di più".
Le pomici ricadute dalla colonna eruttiva pliniana dell'eruzione del 79 d.C. si vedono a Pompei, dove formano un deposito con spessore di circa 4 metri.
Dalla stima del volume totale delle pomici e dei valori di flusso tipici di fasi eruttive pliniane di eruzioni recenti, la colonna dovrebbe essere rimasta alta nel cielo fra le 2 e le 20 ore (Sigurdsson et al., 1985).
Le dimensioni medie delle pomici aumentano verso l'alto del deposito e questo indica che, al procedere dell'eruzione, l'energia andava crescendo e che la colonna veniva spinta ad altezze sempre maggiori.
Le pomici della fase pliniana presentano, approssimativamente a metà altezza, una brusca variazione di colore, da bianco a grigio. Questo cambiamento corrisponde a una differente composizione chimica: le pomici bianche contengono più silice di quelle grige.
Questo permette di ipotizzare che il magma eruttato fosse come suddiviso in due strati, di cui quello più siliceo e più leggero era migrato verso il tetto della camera magmatica ed era stato eruttato per primo.
La porzione di magma da cui derivano le pomici grige è stato espulso in seguito, in quanto ha una composizione chimica che comprende minerali più pesanti e, pertanto, doveva trovarsi sotto quello siliceo. Tra le pomici grige si trovano numerosi frammenti litici.
Secondo Sigurdsson et al. (1985), durante la fase delle pomici bianche la colonna raggiunse un'altezza di circa 26 Km e venne emesso un volume di magma di circa 1 Km3.
Successivamente, la colonna si innalzò fino a circa 32 Km, provocando una più ampia dispersione delle pomici grige. La stima del volume di magma emesso in questa fase è di circa 2,6 Km3.
L'incremento di energia nel corso della fase pliniana può essere la conseguenza di processi che fanno crescere la pressione all'interno della camera magmatica.
Una volta iniziata l'eruzione, il rapido svuotamento di parte del serbatoio di magma favorisce il processo di essoluzione, cioè la liberazione delle fasi gassose contenute nel magma.
Il gas esce dal condotto vulcanico trascinando i brandelli di magma e formando la colonna eruttiva che si alza sopra il vulcano. Se cresce la quantità di gas essolto, cresce la pressione all'interno della camera magmatica e insieme la spinta del magma verso l'esterno.
A questo incremento di pressione corrisponde la maggiore altezza raggiunta dalla colonna nella fase delle pomici grige. In uno stesso punto ricadono al suolo pomici più grandi e l'allargamento del condotto per erosione provoca l'abbondanza di litici che si trovano insieme alle pomici.
La forte pressione all'interno della camera magmatica preme sulle rocce circostanti e le frattura, dando luogo al tremore che accompagna la fase pliniana. Queste scosse hanno un'origine abbastanza profonda, in quanto sono avvertite non solo sulle pendici del vulcano ma fino a notevole distanza, come testimonia Plinio da Miseno:
I carri (..) sebbene fossero in terreno piano, si muovevano di qui e di là e non potevano essere fermati nemmeno se puntellati con pietre.
La stessa evoluzione è testimoniata nel corso dell'eruzione del 1631: "Cominciò anco in Napoli a sentirsi con li continui tremori per li quali crollavano talmente le case e ballavano i tetti". (Braccini)
E ancora nel 1631: "Erasi (...) cominciato a sentire in Napoli un picciolo, benché continuo, tremar delle case. Crebbe in maniera e l'uno, e l'altro, che a tutti parve dover quivi in quel punto infallibilmente morire". (Giuliani)
SECONDA FASE ERUTTIVA: colonna pulsante
Il flusso di magma può diventare così abbondante da formare una colonna eruttiva tanto densa e pesante da non riuscire più innalzarsi sopra il vulcano.
Il collasso, che può interessare anche solo le parti più esterne della colonna, spinge la miscela eruttiva verso il basso. Si formano in questo modo delle correnti che scorrono al suolo e scendono veloci lungo le falde del vulcano.
Queste miscele di gas e particelle solide vengono chiamate in vulcanologia surge quando la fase gassosa è molto abbondante e flussi piroclastici quando la miscela è più densa.
Durante l'emissione delle pomici grige le condizioni devono essersi mantenute vicine al limite tra colonna sostenuta e collassante, dal momento che queste pomici sono intervallate verso l'alto da numerosi strati di cenere.
Le caratteristiche di questi sottili depositi di ceneri fanno ritenere che le particelle non siano cadute da una colonna sostenuta, ma che siano state trasportate e sedimentate da un flusso molto ricco in gas.
Sei strati di cenere si alternano a strati di pomici da caduta e questo significa che la colonna era a tratti sostenuta e a tratti, o in parte, ricadeva lungo le pendici del vulcano.
La fase a colonna pulsante viene riconosciuta nella descrizione di Plinio quando questi dice che la nube
veniva prima spinta verso l'alto da un soffio d'aria e poi, improvvisamente, come vinta dal proprio peso, ricadeva e si espandeva lateralmente.
Dal momento che la sua osservazione inizia quando l'eruzione è già in corso da un certo tempo, è probabile che Plinio non veda tutta la fase pliniana, ma colga proprio il passaggio da colonna sostenuta a colonna collassata.
TERZA FASE ERUTTIVA: i flussi piroclastici
Dopo la fase a colonna pulsante, lo stile eruttivo cambia completamente e si formano correnti piroclastiche, dense di cenere e pomici, che scivolano veloci dalla cima del Vesuvio e travolgono come violenti fiumi tutto quello che incontrano.
Il cambiamento di stile eruttivo viene ricollegato al variare delle condizioni di equilibrio tra pressione interna al serbatoio magmatico e pressione esterna.
La pressione interna diminuisce al momento dell'apertura del condotto, ma risale rapidamente e si incrementa perché la depressione ha innescato nel magma il processo di essoluzione dei gas. A queste condizioni corrisponde il crescendo di violenza della fase pliniana.
Ad un certo punto, il magma non è più in grado di essolvere gas in quantità sufficiente a controbilanciare la pressione delle rocce che formano le pareti del serbatoio.
Queste, già in parte fratturate nel corso della fase pliniana, cominciano a cedere verso l'interno, trascinando probabilmente anche acqua di falda. Il contatto tra rocce, acqua e magma innesca violente reazioni e esplosioni.
Una volta in superficie, la miscela eruttiva è troppo densa per potersi innalzare sopra il bordo del cratere e scivola per gravità lungo i fianchi del vulcano, formando i flussi piroclastici che rappresentano il momento di maggiore distruzione.
Il crollo delle pareti e del tetto di una camera magmatica provoca terremoti profondi. Nelle eruzioni esplosive controllate strumentalmente (ad esempio al St. Helens nel 1980 e al Pinatubo nel 1991), è stato registrato uno sciame di terremoti profondi in coincidenza delle fasi finali.
Dalla lettera di Plinio, sembra che anche i terremoti finali dell'eruzione del 79 siano stati più profondi, in quanto avvertiti nitidamente fino a
Miseno: La terra continuava a tremare.
La stessa cosa, secondo la testimonianza del Giuliani, succede durante l'eruzione del 1631: "Si annoverarono di quando in quando presso a cento gagliardissimi
tremuoti."
Plinio descrive con un crescendo di tensione la fase più disastrosa dell'eruzione, preceduta da una forte scossa e dal ritiro del mare:
Vedevamo il mare ritirarsi quasi ricacciato dal terremoto.
Nel corso dell'eruzione del 1631, Braccini nota lo stesso fenomeno: " Essendosi sentito un grandissimo terremoto (...) anco il mare (...) si ritirò per lungo
spatio."
I flussi piroclastici che si abbatterono su Ercolano, Stabia, Oplonti e Pompei nel 79 d.C. devono essere stati numerosi. Almeno due, probabilmente i maggiori, sono osservati da Plinio in successione verso la fine dell'eruzione:
Una densa tenebra ci minacciava alle spalle.
Di nuovo le tenebre, di nuovo la cenere, densa e pesante.
Analoga è la sequenza di eventi descritta nel 1631: "Fece prima sopra Ottaviano un così grande e rapido torrente (...) diviso in tre profondissimi canali (...). Da questi torrenti è nato il maggior danno" (Braccini). "Crescendo il rumore un torrente di fuoco uscì dal vertice del monte"
(Recupito).
I depositi dei flussi piroclastici dell'eruzione del 79 consistono in grossi strati di ceneri miste a pomici e a litici derivanti dal condotto e dalle pareti della camera magmatica. Gran parte dei cadaveri ritrovati nel disseppellimento delle città si trovano all'interno di questi prodotti.
I danni provocati dall'eruzione del 79 d.C.
Le eruzioni esplosive sono eventi devastanti. Le pomici e le ceneri che ricadono dalla colonna pliniana possono causare gravi danni materiali, come il crollo dei tetti e la perdita di raccolti e animali, ma possono non essere mortali se chi ne è colpito non si trova proprio sotto il vulcano e se ha l'accortezza di fuggire immediatamente.
I flussi piroclastici e i surge, al contrario, non lasciano praticamente scampo anche a notevoli distanze, sia per la loro velocità di propagazione che per la temperatura. Anche le persone non direttamente investite dal flusso possono subire gravi danni o morire per soffocamento o ustioni.
L'eruzione del 79 d.C. ha cancellato nel giro di un giorno intere città e le ha sepolte sotto una spessa coltre di pomici e ceneri. Gli scavi che durano ormai da due secoli scoprono in continuazione pezzi di vita quotidiana improvvisamente bloccati dalla catastrofe.
Negli ultimi anni gli archeologi hanno rivolto maggiore attenzione all'aspetto vulcanologico dei siti e si è così potuto notare che gran parte dei cadaveri si trovano all'interno delle ceneri eruttate nelle fasi finali dell'eruzione.
Questo ed altri particolari fanno pensare che, in molti casi, le persone allontanatesi durante la fase di caduta di pomici siano successivamente tornate sui loro passi per cercare di recuperare qualche cosa e siano state sorprese dall'arrivo dei flussi di cenere.
Probabilmente tra la fase pliniana e quella dei flussi, l'eruzione ha avuto una tregua che ha tratto in inganno e ha causato la morte di molte persone.
Dopo l'eruzione, Marziale (40-104 d.C.) descrive il Vesuvio "poc'anzi verdeggiante di vigneti ombrosi (...) Ora tutto giace sommerso in fiamme e in tristo lapillo"..
Le morti e i danni materiali causati dal Vesuvio furono tanto gravi che l'Imperatore Tito incaricò due ex-consuli (Curatores Restituendae Campaniae) di sovrintendere ai lavori di ricostruzione e di risolvere le questioni legali sorte per la scomparsa di così tante persone.
L'economia della regione ne uscì compromessa e la produzione di vino subì una drastica riduzione. Pompei era famosa anche per la produzione di una salsa di pesce detta "garum" che esportava in grande
quantita.
Dopo l'eruzione, Roma comincia a importare vino e altri prodotti dalla Gallia, come testimoniato dal ritrovamento di numerose anfore di tipo gallico, mentre scompaiono completamente quelle provenienti dalla Campania.
I prodotti dell'eruzione si sono dispersi in gran parte in direzione Sud-Sud-Est, ma anche le zone a Nord e a Ovest, pur essendo state risparmiate da morti e distruzione, devono aver avuto gravi conseguenze economiche.
Pochi centimetri di ceneri o di pomici possono compromettere il raccolto per anni ed è possibile che le colture dell'intera Campania siano state distrutte con conseguenti carestie, perdita di bestiame per mancanza di foraggio e malattie.
Marco Aurelio (121-180 d.C.) e Dione Cassio (150-235 d.C.) parlano dei gravi danni riportati a
Pompei e a Ercolano e riferiscono anche che le ceneri dell'eruzione raggiunsero l'Africa, la Siria e l'Egitto, dove causarono pestilenze.
Non si hanno notizie precise sulle conseguenze dell'eruzione a Napoli o nelle zone non direttamente investite dall'eruzione. Nelle sue lettere, Plinio il Giovane riferisce solo i danni subiti da se stesso e della morte dello zio.
Papinio Stazio (40- 96 d.C.) nella sua opera"Silvae" parla dei danni a Napoli e dovrebbe trattarsi di una testimonianza diretta, dal momento che il poeta visse nella città e probabilmente vi si trovava durante l'eruzione (ritirò un premio di poesia nella città nel 78 o nell'80).
Allontanatosi dopo l'eruzione, Stazio torna a Napoli nel 92 e scrive alla moglie Claudia cercando di convincerla a tornare a vivere in Campania. A Stazio Napoli appare come una città viva e brulicante di gente. Promette alla moglie di farle visitare i templi e il porto di Pozzuoli con le sue belle spiagge. Vuole che torni nei luoghi dove " l'inverno è mite e l'estate fresca, dove il mare lambisce la terra con pigre onde".
Il ricordo dell'eruzione sembra ormai svanito, probabilmente perché sia Napoli che la zona dei Campi Flegrei sono state risparmiate dai danni più gravi.
Nello stesso periodo, le condizioni delle zone più vicine al vulcano dovevano essere molto diverse e solo Stabia era in via di ripresa. Un'importante via di comunicazione tra Nocera e Stabia, coperta dai depositi dell'eruzione, viene ricostruita nel 121.
La zona di Portici e Torre del Greco viene rioccupata tra il II e IV-V secolo d.C. e quella di Pompei e Ercolano solo tra il III e V secolo.
La memoria delle città sepolte perdurò per secoli. In ogni lavoro di scavo e nella coltivazione dei campi emergevano continue vestige di una città che veniva chiamata "La Civita". Gli scavi sistematici iniziarono a Pompei nel XVIII secolo, per volere di Carlo II, re delle Due
Sicilie.
( fonte: http://vulcan.fis.uniroma3.it/
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