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Documentazione letteraria della Roma antica
Nell’epoca romana hanno grande diffusione specializzate
trattazioni di cinologia: il cane è ormai diventato parte integrante della
vita quotidiana e più che mai presente anche nella letteratura
“maggiore”, sia come interprete di movimentate scene di caccia, sia come
protagonista antropomorfizzato di didascaliche favolette.
- TITO LUCREZIO CARO (98-55 a.C.)
La Natura
Ed anche i cani da caccia,
nel loro placido sonno,
pure, talvolta, ad un tratto
muovon le zampe,
ad un tratto dànno in latrati
ed annusano e riannusano l’aria,
quasi in quell’attimo avessero
subodorata la traccia,
e ridestandosi, spesso
inseguon forme di cervi
che non esistono, come
se li vedessero in fuga,
fintantoché, disillusi,
poi, non rientrano in sé.
Invece i cani domestici,
più mansueti di razza,
si dànno a scuotere il corpo
e a sollevarsi da terra,
quasi vedessero facce
e genti non conosciute…
(trad. B. Pinchetti – Ed. B.U.R.)
- VIRGILIO (70-19 a.C.)
Georgiche, 405-14
Ultimo tuo pensiero
però non siano i cani:
pesci di siero grasso
veloci veltri di Sparta
ed il molosso feroce.
Con questi cani alla guardia
mai ti faranno paura
ladri alle stalle di notte,
assalto di lupi, o alle spalle
gli iberi non sottomessi.
Spesso, pure in corsa
Tu inseguirai gli onagri
Timidi e il lepre coi cani,
coi cani in caccia le damme;
spesso dal brago silvestre
farai uscir coi latrati
i cinghiali stancandoli, oppur
spingerai coi clamori
verso le reti per balze di
monte un grandissimo cervo.
(trad. C.Saggio – Ed. B.U.R.)
- OVIDIO (43 a.C. – 18 d.C.)
Metamorfosi, III
Morte di Atteone
Gemito fu la sua voce,
né il pianto gli scorse sul volto.
Sol gli rimase la mente
di prima. Che fare? Alla casa
tornerà forse regale o
starà nelle selve nascosto?
Stare nei boschi gli vieta
il timore; il pudore, il ritorno!
Mentre è perplesso, lo vedono
i cani; e per primi Melampo
e il sagacissimo Icnòbate
diedero il segno latrando:
era spartano Melampo
e Icnòbate oriundo di Creta.
Quindi s’avvertano gli altri
Più presti dell’aria veloce,
Pànago, Orìbaso, Dòrceo,
che cani son tutti d’Arcadia,
ed il gagliardo Nebròfono e
Lèlape e il truce Terone,
Tèrelo, pronto di piedi,
con Agre di fine odorato;
eravi Ilèo ferito testé
da un cinghiale feroce,
Nape, figliouolo d’un lupo,
con Pèmeni guardia di gregge;
eravi Arpìa con due figli
e Ladone siconio col ventre
stretto e Dromante e Canace
con Stitte con Tigri con Alce;
eravi il bianco Leucone
con Assolo tinto di nero,
il vigoroso Lacone
e Aello valente nel corso,
Too e il veloce Licisca
Con Ciprio fratello di lui,
Arpalo, negro la fronte
Macchiata di bianco nel mezzo,
e Melanèo con Lacne
tutta irta il mantello di velli,
Labro ed Argìodo nati
di padre cretese e di madre
lacedemonia e lo stridulo
Ilàttore ed altri che lascio.
Tutta la torma bramosa
di preda l’insegue per rupi
e tra li scogli e le rocce
scoscese per dove la via
è malagevole o manca.
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Lui fugge per ove soleva
spesso inseguire le belve
e s’invola perfino a’ suoi servi!
Desiderava gridare:
“Non riconoscete il padrone?
Son Atteone!” Ma manca
la voce ed il cielo risuona
della cagnara. Per primo
il ferì Melanchete nel dorso,
Terodamante di poi, e
nel fianco Oresìtrofo il morse:
s’erano mossi più tardi
ma rabbreviaron la strada
per scorciatoie montane.
Lo tengono questi coi denti,
mentre sorgiunge la torna
dei cani, che il corpo gli acceffa.
Non è più luogo per nuove
ferite: gemendo si duole
non con la voce dell’uomo e
né pure con quella del cervo,
ma di lamenti funesti
riempie le note montagne;
e su le curve ginocchia
atteggiato com’uno che prega
gira il suo tacito muso
così come fossero braccia.
I suoi compagni non riconoscendolo
aizzano i cani
col consueto clamore e
ricercan con gli occhi l’amico.
E, come assente, lo chiamano a gara:
“Atteone! Atteone!”
(quegli al suo nome si volge col capo)
e si lagnano mesti
che sia lontano e ozioso
non miri la preda che s’offre.
Essere lungi vorrebbe,
laddove è presente; vedere,
non già sentire, vorrebbe
dei veltri la caccia spietata;
ma lo circondano i cani,
che messigli i denti nel corpo,
straziano il loro padrone,
ch’ha forma fallace di cervo;
e non cessò, si racconta,
Diana lo sdegno, fin tanto
che il poveretto non perse
la vita per tante ferite.
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Metamorfosi, VII
Temono molti pastori
una belva per sé e per la strage
dei loro greggi. Noi attici
giovani tutti accorriamo
e con le reti per tutto
cingiamo quei campi spaziosi.
Presta la belva con agili
balzi saltava le reti
e sorvolava leggere
le funi che s’eran tese.
Le si sguinzagliano i cani:
la seguono, ed ella s’invola
rapida più d’un uccello
sfuggendo la torma dei veltri.
Anche il mio Lèlape tutti
Mi chiedono unanimi (il cane
A me donano così si
chiamava); e da tempo lottava
per liberarci dal laccio
e stendeva col collo il guinzaglio
che l’impacciava. Fu sciolto,
né più noi sapemmo ove fosse:
era dell’orme ancor calda
la polvere e non si vedeva!
Non più veloce di lui
Era il volo dell’asta né palla
ch’esca da fionda rotata
né strale leggero che scocchi
d’arco gortinio. Nel mezzo
dei campi soggetti sorgeva
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una collina: vi salgo
e contemplo l’insolita corsa,
onde ora sembra sia presa
la belva, ora sfugga la presa.
Astutamente non corre
Pel dritto cammino né il largo
Piglia, ma sfugge la bocca
del cane che incalza, e si volge
rapida in giro, perché
del nemico sia l’impeto vano.
Ma le sta sopra e lei segue
che fugge con pari sveltezza:
sembra che l’abbia ghermita,
ma non vi riesce ed invano
morsica l’aria. Ricorro
all’aiuto del dardo; ma, mentre
libra la destra lo strale
e mi sforzo di metter le dita
nelle corregge, lo sguardo
devio. Ritorno a guardare
e, meraviglia!, nel mezzo
del piano rimiro due marmi:
l’uno pareva nell’atto
che fugge e che l’altro latrasse!
Certo vi fu qualche nume
che entrambi li volle nel corso
insuperati, se pur qualche
nume fu loro propizio!
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(trad. F. Bernini – Ed. Zanichelli)
- FEDRO (I sec. d. C.)
Favole
Colui che fuori dell’uso
è generoso fa breccia
sopra gli sciocchi, ma invano
tende laccioli agli accorti.
Avendo un ladro di notte-
Tempo gettato del pane
a un certo cane, per prenderlo,
se lo potesse, al boccone:
“Eh, là, vorresti tapparmi
la bocca, ché per la roba
io non abbai del padrone?”
dice. “Ti sbagli di grosso;
ché, anzi, m’impone codesta
benevolenza inattesa
ch’io vegli a che, per mia colpa,
tu non t’impingui le tasche”.
- Il Cane, Il Cinghiale, Il Cacciatore
Un cane forte e veloce
contro le fiere, che aveva
accontentato il padrone,
sempre, col peso degli anni
venne perdendo il vigore.
Spinto a combattere, un giorno,
con un irsuto cinghiale,
lo agguanta, sì, per l’orecchio,
ma poi, siccome ha cariati
i denti, aprendo la bocca,
lascia scappare, la preda.
Il cacciatore, seccato,
gliene moveva rimprovero.
È l’ormai vecchio Lacone:
“Non la mia voglia”, risponde,
“ma le mie forze ti mancano.
Almeno loda ciò che ero,
se ciò che sono lo biasimi”.
Puoi ben sapere, Fileto,
questo perché l’abbaia scritto.
(trad. B. Pinchetti – Ed. B.U.R.)
- Petronio (I sec. d. C.)
Satyricon
Trimalcione, per non restare addietro, imitò il suono della
tromba e poi si volse al suo prediletto che chiamava Creso. Era questi un
ragazzo cisposo e dai denti, sporchi, che in quel momento si divertiva ad
avvolgere in una sciarpa verde una cagnetta nera e grassa da far
schifo; aveva posato mezzo panino sul letto e voleva farglielo mangiare per
forza, sebbene quella fosse già rimpinzata come un uovo. Allora a
Trimalcione gli venne in mente di far venire Scilace, “guardiano della
casa e dei suoi abitanti”, come diceva lui; e subito fu condotto un
cagnaccio immenso legato alla catena, il quale, avvertito da un calcio del
portiere che doveva accucciarsi, si sdraiò davanti alla mensa.
“Nessuno in tutta la casa mi vuol più bene di questo
cane!” esclamò allora Trimalcione gettandogli un pezzo di pane bianco.
Il ragazzo, geloso di quella lode così enfaticamente
elargita a Scialace, mise a terra la cagnetta e la incitò ad azzuffarsi con
lui. Subito Scilace, da quel cane che era, riempì il triclinio di latrati
spaventevoli e per poco non fece a pezzi la perla di Creso.
(trad. U. Dottore – Ed. B.U.R.)
- Plutarco (46-120 d. C.)
Vite parallele
Alcibiade aveva un cane, straordinariamente grosso e bello,
che aveva pagato settanta mine, e un giorno egli gli mozzò la splendida
coda. Poiché i familiari deplorarono la cosa e gli espressero la
disapprovazione generale e le aspre critiche cui era fatto segno per quel
gesto, egli ridendo: “è proprio questo”, esclamò, “che io desidero.
Infatti voglio precisamente che gli Ateniesi, chiacchierando di questo
incidente, non abbiano a dire di me cose peggiori”.
Lo spettacolo della città [Atene] che salpava suscitò in
alcuni compassione, in altri ammirazione per il coraggio di quegli uomini, i
quali, messi in salvo i propri figli, insensibili ai gemiti, alle lacrime e
agli abbracci dei genitori, si trasferivano sull’isola di Salamina. Anche
i cittadini lasciati indietro per la tarda età suscitavano pietà, e un
po’ di tenerezza facevano anche gli animali domestici che con guaiti
disperati rincorrevano i loro padroni che salivano sulle navi: fra questi
animali è passato alla storia il cane di Santippe, padre si Pericle, il
quale, non sopportando di separarsi dal padrone, si gettò in mare e
nuotando accanto alla trireme giunse fino a Salamina e là subito perdette i
sensi e morì. Ancor oggi si mostra a Salamina un luogo detto “Tumulo del
Cane”, che si dice sia il sepolcro di quella povera bestia.
…le cavalle, con le quali Cimone aveva vinto tre volte ad
Olimpia, hanno la tomba vicino a quella del loro padrone. E molte persone
fanno seppellire i cani allevati e cresciuti con loro; così fece Santippe
il Vecchio, il quale, al suo cane, che aveva nuotato a fianco della trireme
alla volta di Salamina – quando il popolo ateniese abbandonò la città -,
diede sepoltura su un promontorio che ancor ora chiamano “Tumulo del
Cane”. Noi dobbiamo infatti usare degli esseri dotati di un’anima non
come di calzari o utensili vari, gettandoli via quando sono rotti o consunti
dall’uso, ma invece abituarci, non foss’altro che per esercizio di
umanità, a trattarli con bontà e gentilezza.
(trad. A. Mattioli – Ed. B.U.R.)
la morte di Bucefalo [il cavallo] addolorò vivamente
Alessandro, come la perdita di un amico affezionato, e alla città fondata
presso l’idaspe diede il nome di Bucefalo. Si raccontò pure che, mortogli
un cane di nome PERITAS, che Alessandro aveva allevato e aveva caro, fondò
la città cui pose lo stesso nome …
(trad. F. Brindisi – Ed. B.U.R.)
- Bibbia
(IX - 90)
E Gesù rispose, e disse: non è buono, a torre il pane a’
figliuoli, e darlo a’ cani. Ed ella disse: O Signore, anche i catolini
mangiano de’ minuzzoli che cadono dalla mensa del Signore.
(IX - 401)
Giaceva in terra alla porta sua, tutto impiagato,
desiderando di saturarsi delle minute particelle che cadevano dalla mensa
del ricco; al quale nulla davanti alcuna cosa; ma etiam li cani venivano
presso di lui, e lingevano le sue piaghe.
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